martedì 18 agosto 2009

Una tipa che scomparì


Io non sparisco, perché non lo so fare, non sono mica una favola.
Non è una magica sparizione, la mia. Io scompaio, è diverso. E lento.


Tutto iniziò per gioco.
E precisamente nascondino, quello in cui già mentre corri per nasconderti ti scappa la pipì.

Ma nascondersi non era esattamente scomparire, quindi decisi di cambiare modalità e adesso ero io che nascondevo ciò che potevo vedere convinta che se non vedevo io non potessero vedermi neanche gli altri.
Avevo sottovalutato la trasversalità dei punti di vista.
E lo imparai a scuola, anche se non esattamente nei libri.


Mi ricordo una maestra che mi inquietava particolarmente.
Se fosse stata una professoressa mi sarebbe più semplicemente stata sul culo, ma lei era la mia maestra ed io ero piccola, non avevo ancora il concetto di ribellione tipica, solo un'atipicità innata.
In un giorno in cui cominciavo a sviluppare il mio intuito scolastico sapevo che mi avrebbe chiamata non appena le fossi venuta in mente, perché le maestre vuoi per pigrizia o semplice mancanza di fantasia chiamano chi vedono.
Quindi facevo di tutto per non vederla cercando di avere la stessa sagoma del mio compagno davanti.
Sentivo chiamare il mio nome ma la fortuna di avere nomi fighi o, come nel mio caso, un nome mediamente comune mi faceva sperare che fosse la mia omonima.
Ma no, ero decisamente io.
Ed il "guarda che ti vedo, anche se ti metti così" era inequivocabilmente rivolto a me e oltre a farmi capire che neanche questa modalità era quella giusta mi consolò perché qualcuno si era accorto di me, si era accorta che cercavo di sparire.
E forse era semplicemente questo ciò che volevo.


Crescendo le mie angosce di bambina si evolsero in normali insicurezze adolescenziali.
Avevo senz'altro capito che nascondermi serviva solo per poco.
Anche se continuai a farlo per molto tempo, con le bugie in cui arrivavo a credere io stessa.
Quindi evitavo di parlare, sparivo dagli spazi e dalle righe dei dialoghi e tutte le parole potevano passarmi attraverso, senza farmi male.


Mi scambiarono anche per un'anoressica, non capendo che io non volevo apparire magra, semplicemente speravo di scomparire più in fretta possibile, talmente in fretta che non sentivo il bisogno di mangiare.
E leggevo tanto quanto non mangiavo.

Cominciavo a prendere coscienza che il mio non era solo un desiderio o una volonta ma il mio unico modo di (non) essere e capivo che sarei scomparsa senza alcuno sforzo, così scrivevo ogni volta che ne avevo la possibilità le cose che mi passavano in mente per potermi almeno tenere i pensieri.


I miei non capivano, facevano solo il loro mestiere: si preoccupavano.
Io di riflesso non capivo loro, quindi, alla prima occasione non soffrìi molto a trasferirmi altrove, decisa a fare un'università scelta quasi a caso, cercando di intrappolare il mio sfumante futuro.

E non facevo altro che dormire e fare sogni che una volta sveglia avrei prontamente archiviato in settori della memoria a cui evidentemente io non avevo l'accesso.

Mi sentivo sfinita, bastava camminassi un po' troppo rasente ad un muro o ad una persona per sentirmi risucchiare la testa.

A parlare con gli altri avevo già rinunciato da molto e non ne sentivo la mancanza, ogni tanto qualcuno mi si sedeva accanto e, sfogandosi, era come se mi raccontasse qualcosa e tanto mi bastava.

Più di ogni altra cosa mi piaceva carpire i nomi, nomignoli dati nel momento e urlati un po' troppo forte del previsto.
Mi piaceva anche andare a letto quando tutti erano ancora svegli e dalla porta della mia stanza entrava la luce della cucina col sottofondo delle loro voci e di ciò che raccontavano.

Un giorno senza niente di particolare e in cui non succedeva niente mi scomposi del tutto.
Completamente incompleta.
Di me rimangono solo i Lego e i nomi sui muri delle strade.

5 commenti:

mauro ha detto...

sembra quasi scritta da te!

mauro ha detto...

ma l'immagine sei tu precisa!

sniper_shot ha detto...

Mi piace!

Anonimo ha detto...

complimenti

Anonimo ha detto...

approvato.